la fotografia e l’esperienza dell’ignoto

versione inglese

Senza ambiguità, nessun cambiamento, mai.
Paul Feyerabend 1989

…come se la Natura potesse sostenere soltanto un tipo di comprensione.
Henry David Thoreau, 1854

Vi sono molte possibili attitudini, individuali e collettive, nei confronti della complessità, dell’incertezza e, più in profondità, dell’ignoto.

Due di queste si trovano agli estremi di una dicotomia: l’una consiste nello sviluppare degli strumenti per controllare il futuro, minimizzare i possibili eventi avversi e massimizzare l’eventualità di sviluppi positivi. L’altra si fonda sul rendersi sufficientemente consapevoli del presente, e pertanto pronti allo svolgersi del tempo. La prima attitudine consiste nel concentrarsi essenzialmente sul modificare il mondo esterno, dunque sullo sviluppare e mantenere il potere e il controllo sui fenomeni naturali. La seconda si fonda sul preservare e raffinare la capacità degli esseri umani, e più in generale di tutti i viventi, di reagire e di adattarsi; dunque è fondata sul sostenere e migliorare la nostra resilienza individuale e collettiva.

L’apparato tecnoscientifico contemporaneo, nella sua natura altamente contraddittoria e paradossale, inclusi i suoi innegabili successi, può essere interpretato come una risposta che emerge dal primo tipo di approccio. In questo scenario, la complessità è un intralcio che va eliminato dal sistema, o per lo meno semplificato nei termini di complicazione trattabile. L’incertezza e la paura dell’ignoto sono tradotte in valutazione e percezione del rischio.

D’altro canto, le epistemologie e le pratiche dei popoli indigeni ancora presenti, così come, ancora più radicalmente, quelle degli animali che popolano con noi il pianeta, possono essere messe in relazione con la seconda disposizione. La complessità può diventare una risorsa quando emerge dalla biodiversità culturale e naturale. L’incertezza e l’ignoto possono funzionare come cardini per un agire creativo[1].

In questo contesto complessivo, è possibile ripensare al ruolo della ricerca e della fruizione artistica, proprio in relazione al rapporto con la complessità, e, più in generale, con l’ignoto.

La fruizione artistica, sia essa proposta in contesti accademici, museali o più generalmente civili, può avere la funzione di creare uno spazio di dialogo aperto e costruttivo. Il coinvolgimento insieme emotivo e cognitivo che un’esperienza estetica[2] collettiva produce, può in effetti contribuire a liberare uno spazio interno in ciascuno dei presenti, e tale spazio aperto può poi essere esplorato nella condivisione di narrazioni, esperienze e idee. In questo modo, è possibile mettere in discussione la separazione moderna tra l’arte, come espressione puramente soggettiva, e la scienza come osservazione oggettiva.

Veniamo ora brevemente al ruolo della ricerca artistica, in particolare della fotografia, nella sua relazione con la complessità e l’ignoto.

Nel fare esperienza dell’umanità altrui

posso sentire la mia stessa umanità e il mio mondo si espande in quel momento.

Philip Perkis 2001

 

La posizione è l’origine da cui tutto accade.

Frederic Sommer 

La fotografia è comunemente associata all’atto del vedere, come la pittura moderna. È nata in connessione con la scienza, come strumento per registrare i risultati di un’osservazione neutrale. In questo ideale, il fotografo non è un poeta ma uno scriba[3], il quale ambisce a diventare invisibile, a sparire dalla scena; la riproduzione oggettiva è concepita come una virtù epistemica[4]. La fotografia scientifica, naturalistica e la più recente fotografia di scena sono esempi comuni di tale attitudine.

All’estremo opposto, la fotografia può essere intesa come attività predatoria: il fotografo detiene un potere intrinseco sui suoi soggetti osservabili e il suo potere diventa parte del processo del fotografare. Gran parte della fotografia di moda e di strada sono fondate su tale approccio: la visione di Antonioni in Blow Up o i ritratti di Diane Arbus possono essere considerati come esempi.

In entrambi i casi – sia nello sparire sia nel prevalere – ciò che è centrale in questo tipo di lavoro visivo è catturare un oggetto, più o meno consapevole e riconoscibile, al fine di mostrarlo come tale a degli osservatori altri, in tempi e in contesi diversi. La preoccupazione di Walter Benjamin circa la perdita dell’aura artistica è radicata in questo tipo di dislocamento oggettivante[5].

Tuttavia, la fotografia può anche essere considerata in modo diverso. Un primo passo è concentrarsi sulle connessioni tra le cose – il ritmo del visibile – invece che sull’identità degli oggetti esterni. In uno dei suoi più celebri libri, dal titolo “La Foresta Democratica”, il fotografo americano William Eggleston sostiene la necessità di “trattare le cose in modo democratico”, in un’ode poetica alla visione sistemica[6]. L’atto del fotografare può dunque essere compiuto con una modalità paradossale: utilizzare uno strumento che inquadra al fine di eliminare ogni inquadramento, ovvero per esplorare liberamente e consapevolmente il proprio sguardo sul mondo.

Con un passo ulteriore all’interno di tale approccio sistemico, la ricerca, la pratica e la fruizione fotografica possono essere intese e intraprese come vie per lavorare non soltanto sulla visione e sulla percezione, ma su uno stato dell’essere più ampio: per ricordare e raffinare la propria capacità di essere presenti, dunque consapevoli di ciò che ci abita ci circonda, e pertanto pronti e aperti all’evolvere nel tempo. In questo senso, la fotografia può essere intesa come un’arte della presenza: imparare ad essere in uno spazio e in un tempo definito, in relazione dinamica con il flusso di eventi esterni e interni.

In tal senso, si tratta di sviluppare un’abilità – nell’adattare la macchina fotografica e il corpo allo spazio, al tempo e alla luce – e quindi di esporre tale abilità con intenzione e sforzo, all’occorrenza del caso, in un luogo specifico e scelto. L’intenzione si esprime dunque nella scelta consapevole di agire in un tempo ed uno spazio definito, con uno strumento e una capacità a disposizione, e il caso comporta l’accadimento di correlazioni tra eventi interni ed esterni all’interno di questo insieme di vincoli decisi. Le immagini diventano così testimonianze di incontri tra il caso e l’intenzione così definiti, all’interno degli ambienti più vari[7]. Questo tipo di processo ha dunque a che fare con l’esperienza della complessità e con l’assumere al suo interno una posizione epistemica, emotiva e fisica deliberata, dunque responsabile.

La separazione tra l’osservazione neutrale e l’espressione soggettiva è così messa in discussione in modo essenziale: l’idea non è controllare o eliminare il rumore non voluto (la complessità intrinseca), al fine di creare una riproduzione perfetta, esteticamente standardizzata, di una rassicurante e conquistata realtà esterna (uno o più oggetti identificati), ma rendersi testimoni del flusso di correlazioni complesse tra il mondo interno e quello esterno, nel quale si è immersi. In questo senso, si predilige la presenza rispetto alla perfezione.

La speranza è che le immagini così prodotte possano a loro volta evocare in chi guarda una relazione aperta e adattabile, eppure definita e assolutamente propria, con la complessità e con l’ignoto, come ineludibili dimensioni dell’esistere.

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[1] Benessia, A., Funtowicz, S., Bradshaw G., Ferri F., Ráez-Luna E.F. and Medina C.P. 2012. Hybridizing sustainability: Towards a new praxis for the present human predicament. Sustainability Science 7(1): 75-89,DOI 10.1007/s11625-011-0150-4.

[2] Dal greco ασθησις, aisthesis: percezione, sensazione, sentimento.

[3] Fox Talbot in Sontag S. 1977. On Photography. New York: Anchor Books Doubleday.

[4] Daston L. e Galison P. 2007. Objectivity.New York: Zone Books

[5] Benjamin W. 1936. The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction, in Benjamin W. 1969. Illuminations: Essays and Reflections. New York: Schocken

[6]Eggleston W. 1989. The Democratic Forest. London: Secker & Warburg

[7] Tra i fotografi contemporanei che lavorano o hanno lavorato in tal senso possiamo ricordare l’americano Philip Perkis (Perkis 2001 e 2008), il ceco Josef Kouldeka (Koudelka 1997, si veda anche Contacts Vol1, http://www.youtube.com/watch?v=Qjv80_k4HtU&feature=fvsr) e l’italiano Luigi Ghirri (Ghirri 2006).