La fotografia è comunemente associata all’atto del vedere, come la pittura moderna. È nata in connessione con la scienza, come strumento per registrare i risultati di un’osservazione neutrale.

All’estremo opposto, la fotografia può essere intesa come attività predatoria: il fotografo detiene un potere intrinseco sui suoi soggetti osservabili e il suo potere diventa parte del processo del fotografare.

In entrambi i casi – sia nello sparire sia nel prevalere – ciò che è centrale in questo tipo di lavoro visivo è catturare un oggetto, più o meno consapevole e riconoscibile, al fine di mostrarlo come tale a degli osservatori altri, in tempi e in contesi diversi.

Tuttavia, la fotografia può anche essere considerata in modo diverso. Un primo passo è concentrarsi sulle connessioni tra le cose – il ritmo del visibile – invece che sull’identità degli oggetti esterni. L’atto del fotografare può  essere compiuto con una modalità paradossale: utilizzare uno strumento che inquadra al fine di eliminare ogni inquadramento, ovvero per esplorare liberamente e consapevolmente il proprio sguardo sul mondo.

Con un passo ulteriore all’interno di questo approccio sistemico, la ricerca, la pratica e la fruizione fotografica possono essere intese e intraprese come vie per lavorare non soltanto sulla visione e sulla percezione, ma su uno stato dell’essere più ampio: per ricordare e raffinare la propria capacità di essere presenti, dunque consapevoli di ciò che ci abita ci circonda, e pertanto pronti e aperti all’evolvere nel tempo.

In questo senso, la fotografia può essere intesa come un’arte della presenza: imparare ad essere in uno spazio e in un tempo definito, in relazione dinamica con il flusso di eventi esterni e interni.

In tal senso, si tratta di sviluppare un’abilità – nell’adattare la macchina fotografica e il corpo allo spazio, al tempo e alla luce – e quindi di esporre tale abilità con intenzione e sforzo all’occorrenza del caso, in un luogo specifico e scelto. L’intenzione si esprime nella scelta consapevole di agire in un tempo e spazio definito, con uno strumento e una capacità a disposizione.  Il caso determina l’accadere di correlazioni tra eventi interni e esterni, nell’ambito dei vincoli decisi.

Le immagini diventano testimonianze di incontri tra il caso e l’intenzione così definiti, all’interno degli ambienti più vari. Questo tipo di processo ha a che fare con l’esperienza della complessità e con l’assumere al suo interno una posizione deliberata (epistemica, emotiva e fisica), dunque responsabile.

La separazione tra l’osservazione neutrale e l’espressione soggettiva è così messa in discussione in modo essenziale: l’idea non è controllare o eliminare il rumore non voluto per creare una riproduzione perfetta, esteticamente standardizzata, di una rassicurante e conquistata realtà esterna, ma rendersi testimoni del flusso di correlazioni complesse tra il mondo interno e quello esterno.

In questo senso, si predilige la (ricerca di) presenza alla (ricerca di) perfezione.

La speranza è che le immagini così prodotte possano a loro volta evocare in chi guarda una relazione aperta e adattabile, eppure definita e assolutamente propria, con la complessità e con l’ignoto, come ineludibili dimensioni dell’esistere.

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